Afghanistan, parla Claudio Bertolotti, analista strategico ISPI: “Il Paese è tuttaltro che pacificato: è una polveriera pronta ad esplodere più di quanto non lo fosse nella metà degli anni ’90 o nel 2001”

Roma. La questione afgana è tornata, in queste ore, di estrema attualità. Il contingente dei nostri militari ora presenti nel Paese deve andare via o restare? Ed a quali condizioni deve avvenire l’una o l’altra scelta?

Militari afghani

Sono domande che anche parte dell’opinione pubblica si pone. Report Difesa ne ha voluto ragionare con Claudio Bertolotti, analista strategico ISPI, Direttore di START InSight proprio per cercare una spiegazione geopolitica della presenza italiana nella missione della NATO Resolute Support (RS), nata il 1° gennaio 2015, in sostituzione della missione ISAF, sempre dell’Alleanza Atlantica.

Il fine della RS è quello di fornire assistenza per la formazione dell’Esercito e delle altre Forze Armate afgane, già iniziata con l’ISAF e conclusasi nel 2014.

Dottor Claudio Bertolotti, il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha dichiarato nei giorni scorsi che entro un anno l’Italia ritirerà il suo contigente in Afghanistan. Missione è allora definitivamente terminata?

Se il contingente italiano impegnato in Afghanistan dovesse effettivamente essere ritirato, così come riportato dai media, questo non potrà avvenire in maniera unilaterale se non al prezzo della perdita della credibilità a livello internazionale. L’Italia è impegnata nella lunga guerra afghana, fin dall’inizio, come uno dei principali contributori dell’Alleanza Atlantica e, per un breve periodo, della Coalizione internazionale che si è schierata all’interno della missione di combattimento “Enduring Freedom”.

Se disimpegno dovrà esserci, questo dovrà tenere in considerazione le esigenze di tutti gli alleati, in primis degli Stati Uniti. Si potrà dire, dunque, che la missione afghana sarà terminata quando la NATO avrà ritirato il suo ultimo contingente. E questo ritengo debba richiedere più dei dodici mesi paventati dai media in questi giorni. Non solo per questioni logistiche ma principalmente per consentire un passaggio di responsabilità dopo il cessate il fuoco con i Talebani che dovrebbe anticipare il disimpegno massivo.

Dal punto di vista strategico cosa comporta questa scelta?

Se l’accordo dovesse essere formalmente accettato dalle parti, qualunque strategia precedente verrebbe di fatto archiviata. Gli Stati Uniti si disimpegneranno ritirando la massa di truppe schierate, sia quelle inquadrate nella NATO, sia quelle impegnate nella missione “Freedom’ Sentinel”, avviata nel 2015 ed erede di “Enduring Freedom” voluta dall’amministrazione Bush nel 2001.

L’Alleanza Atlantica ritirerà parallelamente, in maniera progressiva i proprio contingenti, lasciando spazi vuoti che verranno riempiti dai gruppi di opposizione armata che non aderiranno al processo negoziale. Potrebbero rimanere piccole unità di Forze speciali, a supporto delle Forze afghane, alle quali si affiancherà la componente dei contractor che potrebbe aprire a una nuova fase: quella della privatizzazione della guerra.

In questo caso le porte si aprirebbero a società statunitensi, come la Blackwater di Erik Prince ed ad analoghe società russe. E questo sta già avvenendo in altre aree di crisi, dalla Siria alla Libia.

Ad una prima lettura, sembra che il nostro Paese si sia messo sulla scia dell’amministrazione Trump? Cosa vuole dire questo che l’Italia si fa dettare la strategia dagli USA?

In Afghanistan la strategia è da sempre una prerogativa statunitense. La NATO e l’Italia che dell’Alleanza Atlantica è parte e da sempre tra i maggiori contributori. Il nostro Paese si è adeguato alle priorità di Washington ed orientato ad assecondarne tempi e modi della condotta della guerra.

Militari americani impegnati in Enduring Freedom

Il nostro Paese, al pari di tutti i partner della NATO, ha sempre accettato questo approccio, principalmente perché è meno impegnativo: chi decide deve anche combattere ed il combattimento, come dimostrano le statistiche dei caduti, è stata per anni una prerogativa delle Forze statunitensi, britanniche e canadesi (finché sono state in Afghanistan). Non sarebbe potuto avvenire differentemente.

L’Italia è, ed è sempre stata poco propensa ad assumere un ruolo in prima linea, nella lotta armata contro i Talebani. Nel complesso, se non in rare occasioni, l’impiego delle truppe italiane in operazioni di tipo offensivo non è stato incisivo né rilevante, se non nell’addestramento alle Forze di sicurezza afghane, al pari dei partner europei dell’Alleanza Atlantica.

A quanto appare l’Afghanistan non sembra del tutto rappacificato. Non si rischia di consegnare il Paese, in molte aree, ai Talebani? Con il rischio di avere vanificato risorse economiche, militari ed il sacrificio di tanti soldati?

L’Afghanistan è per quasi metà del proprio territorio già sotto controllo Talebano o sotto la sua influenza. Consegnare ulteriori porzioni del Paese a loro è un fatto inevitabile. L’accordo di cui si sta parlando e che sarebbe stato siglato dal rappresentante Khalidzad ed il portavoce dei Talebani in Qatar, presso l’ufficio politico del movimento, il mullah Baradar – se attuato – di fatto lo prevede.

 

Il mullah Baradar

Il Paese è tuttaltro che pacificato: è una polveriera pronta ad esplodere più di quanto non lo fosse nella metà degli anni ’90 o nel 2001. In Afghanistan stanno convergendo molti volontari e reduci del jihad globale, forti delle loro esperienze e capacità operative acquisite in Siria, Iraq.

Tra questi jihadisti anche gli “europei”, e tra queste alcune donne, che vanno e andranno sempre più a rinforzare il fronte dello Stato islamico Khorasan, il franchise afghano che si richiama allo Stato islamico di Abu Bakr al Baghdadi, che in Afghanistan è sempre più forte, pur a fronte di numeri molto ridotti rispetto ai talebani.

Ma in Afghanistan rimane anche la galassia insurrezionale legata ai gruppi vicini ad al-Qa’ida. E’ difficile pensare che possano essere cacciati dal Paese in base all’accordo di cui si sta parlando. La storia ci insegna che gli accordi presi con gli insorti afghani raramente sono stati rispettati: lo hanno imparato definitivamente gli inglesi che proprio cento anni fa hanno lasciato il Paese, nel 1919.

E’ vero che oggi i nostri soldati sono impegnati solo in attività di addestramento delle Forze Armate e di Polizia afghane. Ma una volta lasciate da sole, queste unità potranno veramente rispondere alle esigenze di sicurezza del Paese?

Le Forze afghane oggi, sul piano operativo, sono in grado di esprimere non più del 50% del proprio potenziale operativo. Questo per molteplici ragioni: limitata capacità di pianificazione e condotta delle operazioni, limiti oggettivi nel coordinamento tra unità sul terreno, limitata capacità di supporto aereo, capacità logistica ridotta, scarsa coesione all’interno dei reparti e tasso di abbandono delle Forze di sicurezza preoccupantemente elevato.

Ma l’aspetto più preoccupante è che sul piano finanziario le Forze afghane dipendono totalmente dai fondi dei contributori internazionali, in primis gli Stati Uniti: forniture militari, equipaggiamenti e stipendi, tutto grazie ai finanziamenti stranieri. Tali aiuti continueranno anche dopo l’inclusione dei Talebani in un ipotetico governo di transizione? Siamo sicuri che i contribuenti statunitensi e della NATO sosterranno tale decisione? Una questione estremamente delicata.

Sul piano operativo, negli ultimi anni, la dispersione sul territorio, e la conseguente vulnerabilità agli attacchi dei gruppi di opposizione armata, ha costretto le Forze armate a lasciare le aree più periferiche meno difendibili per concentrarsi attorno alle aree urbane. Una scelta che, se da un lato ha compattato e reso più gestibile lo strumento militare, dall’altro lato lasciato ai Talebani il controllo di ampia parte del territorio. Con l’eventuale uscita di scena della NATO queste criticità aumenteranno in maniera irreversibile con il rischio di portare al collasso lo strumento militare in tempi relativamente brevi.

Il Segretario Generale della NATO, Stoltnberg in una recente visita a Herat

Una volta che l’Italia andrà via, cosa lasceremo concretamente all’Afghanistan?

Temo che lasceremo molto poco, poiché del molto che è stato fatto non vi sarà garanzia di mantenimento. Molto è stato speso dall’Italia sul piano militare, circa 7 miliardi di euro, molto meno invece sul piano della cooperazione civile e lo sviluppo, circa 280 milioni di euro.

Il tutto nel contesto di una guerra che nel suo complesso è costata mille miliardi e che ha visto destinati 5 miliardi di euro all’anno per il sostegno alle Forze di sicurezza afghane che oggi sono deboli, non coese, con una ridottissima capacità logistica e di supporto aereo. All’interno della stessa area di responsabilità italiana, in particolare nelle zone rurali e periferiche, molte delle scuole sono chiuse o gestite sotto il controllo dei Talebani.

Queste le ragioni per cui lasceremo poco. Lasceremo però l’idea di ciò che l’Afghanistan avrebbe dovuto essere nelle convinzioni di un’opinione pubblica che per anni ha guardato al Paese che si sarebbe voluto stabile, libero dai Talebani e dalla violenza jihadista. Ma così non sarà. E sin fondo l’Afghanistan, in questo modo, proseguirà lungo il tracciato della propria storia, nel bene e nel male di chi, tra gli afghani, lo avrebbe voluto diverso.

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