Russia: le storie e le morti di Aleksej Anatol’evič Naval’nyj e di Daria Dugina. Il doppiopesismo di un Occidente che ha perso la rotta

Di Marco Petrelli 

ROMA (nostro servizio particolare). Il dissidente russo Aleksej Anatol’evič Naval’nyj è morto.

Navalny è stato arrestato varie volte dalla Polizia russa

Una notizia che ha sconvolto l’opinone pubblica internazionale, da tempo in attesa di conoscerne la sorte. Naval’nyj era diventato un simbolo, l’icona della lotta per la democrazia contro la tirannia di Putin.

Ora è l’icona della contrapposizione culturale fra il mondo libero e la Russia.

Alla notizia del decesso, dall’Europa e dagli Stati Uniti si è levato un legittimo coro di unanime sdegno e di condanna dei sistemi di detenzione di Mosca, marcando ancora una volta la differenza fra l’Occidente democratico e una Russia che parrebbe troppo legata al passato sovietico.

D’altronde, nei due anni di “Operazione militare speciale” la Federazione è stata sovente tacciata di intimidazioni ai propri giornalisti, di mancanza di trasparenza, di concentrazione del potere nelle mani di Putin in carica dal 1999 e pronto ad un nuovo mandato.

Ma davvero la Russia è così lontana da noi?

Che all’ombra delle cupole del Cremlino non si conosca la democrazia (almeno nel senso occidentale del termine) è noto e ben chiaro: dopo quattro secoli di assolutismo zarista, seguono 70 anni di totalitarismo bolscevico.

Un’immagine del Cremlino

Poi, la breve parentesi di Boris Elcin, periodo piuttosto fosco per i russi nei quali la debolezza economica, l’instabilità delle istituzioni e gli eccessi del nuovo Presidente (i carri armati che circondano la Duma, la clamorosa disfatta cecena e le frequenti sbronze ai meeting internazionali) hanno screditato il concetto di democrazia e contribuito al rafforzamento popolare dell’immagine di un Putin come restauratore del prestigio perso.

Vogliamo domandarlo un’altra volta: la Russia del 2024 è ancora di stampo sovietico?

No che non lo è, per quanto gli usi, i costumi e la percezione delle istituzioni e del loro ruolo siano molto diversi rispetto ai paesi dell’Unione Europea. Paesi che, loro malgrado, hanno il diritto di criticare Mosca quanto quello, però, di fare auto-critica.

Nel momento in cui leggete questo articolo, i sospetti della morte di Aleksej Anatol’evič Naval’nyj cadono su Vladimir Putin per quanto manchino ancora prove certe di un suo coinvolgimento nel decesso dell’oppositore.

Il Presidente russo Vladimir Putin

Nonostante i forti sospetti, mancano prove certe sulla matrice ucraina dell’attentato che ha portato alla morte Daria Dugina, figlia del filosofo russo Aleksander Dugin.

Per rinfrescarvi la memoria, Daria Dugina fu uccisa, nell’agosto del 2022, da una bomba piazzata nella sua auto.

Daria Dugina

All’epoca la condanna dell’attentato fu tiepida. Solo il Santo Padre ricordò la ragazza come vittima civile ed innocente della guerra, incassando una dura critica del ministro degli esteri di Kiev Dimitri Kuleba che, forse dimentico del ruolo del Papa, ne ha aspramente contestato le parole.

Due pesi e due misure, come tuttavia è piuttosto diffuso in politica internazionale: evidenziare le criticità dell’altro, senza rammentare le proprie.

Ma il fatto che sia prassi diffusa non significa sia giusta: gli USA ne sanno qualcosa.

L’Amministrazione democratica di Joe Biden, in prima linea nel sostegno all’Ucraina e pronta a nuove sanzioni dopo la morte di Naval’nyj, dimentica di quando l’Amministrazione democratica Kennedy-Johnson veniva attaccata dai media di tutto il mondo per il coinvolgimento in Vietnam.

Il Presidente USA, John Kennedy

Focalizzato sui bombardamenti a tappeto e sui crimini di guerra, il main stream sovente dimenticava che il Vietnam del Nord era un totalitarismo comunista e che la liberazione del Vietnam non poteva certo avverarsi sostituendo il regime militare e corrotto di Saigon con il totalitarismo di Hanoi. Come poi accaduto…

Un’immagine della guerra del Vietnam

Gli americani non hanno imparato dal loro passato prossimo né, probabilmente, rammentano quanto a lungo siano stati bersagliati da media e opinionisti per le strategie adottate in Iraq ed Afghanistan.

Ecco, l’Afghanistan il grande dimenticato dove, davvero, un regime medievale liberticida schiaccia milioni di persone che in vent’anni di missioni ISAF (International Security Assistance Force) e Resolute Support (RS) avevano sperato in un miglioramento delle loro condizioni di vita.

Libertà d’informazione per libertà d’informazione, gli stessi media che oggi raccontano le crudeltà della Russia hanno spento i riflettori sulla catastrofe umanitaria in Afghanistan, sulla crisi in Siria, su al Qaeda, sull’ISIS, su Paesi alleati dell’Occidente quali Arabia Saudita, monarchie del Golfo, Turchia dove i diritti di oppositori, donne e minoranze sono violati nel silenzio generale.

In Italia la guerra russo-ucraina è servita anche ad un altro scopo, quello cioé di presentare la nostra informazione come completamente libera, totalmente indipendente e sinceramente priva di pregiudizi.

L’episodio de l’Aria che Tira fra David Parenzo e Nadana Fridrikhson ne è emblematico esempio: che senso ha invitare una giornalista straniera ad un dibattito, se si parte dal presupposto che ella dipende da una televisione di parte, che in Italia vi è libertà di espressione ed in Russia no, se lo scopo è motteggiarla ogniqualvolta cerchi di difendere le sue posizioni?

Sappiamo bene che in Italia parte dei media risente molto delle influenze politiche, anteponendo talvolta l’interesse di parte alla verità, che si adegua ai trend dettati dal contesto internazionale, che talvolta si appoggia al lavoro di giornalisti in disperata ricerca di un’opportunità lavorativa, come i tanti partiti per l’Ucraina. Rischio loro, a basso costo.

No, noi non incarceriamo giornalisti ed è giusto che le nostre coscienze siano scosse per la misteriosa morte di Aleksej Naval’nyj, così come certamente lo saranno di fronte alla prospettiva di 170 anni di carcere per Julian Assange.

Julian Assange

Ciò che è importante però è imparare ad essere meno emotivi e più obiettivi: il giornalista analizza i fatti, si documenta, cerca una fonte attendibile, non fa processi alle intenzioni.

E, qualche volta, sorride all’idea che nella lista di Reporter senza Frontiere l’Italia è al 41° posto, preceduta da Namibia, Macedonia del Nord e Montenegro.

Un sorriso amaro ma che fa riflettere.

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