Catalogna, gli errori di Rajoy per impedire il referendum indipendentista. Problema principale gli aspetti economici

Di Danilo Giordano

Barcellona. In questi ultimi giorni di settembre le strade della Catalogna, ed in particolare della sua “capitale” Barcellona, sono diventate il teatro di uno scontro politico che pochi si prefiguravano così aspro. L’approssimarsi della consultazione referendaria del 1° ottobre per decidere il futuro della regione catalana, ha esacerbato gli animi degli attori coinvolti, in particolar modo quelli della compagine governativa guidata dal premier Mariano Rajoy.

Una manifestazione indipendentista a Barcellona

Nel corso della scorsa settimana le autorità spagnole si sono prodotte in una escalation di dimostrazioni di forza che hanno pochi precedenti nella storia recente: prima le “minacce” nei confronti dei promotori del referendum, poi la ricerca ed il sequestro di materiale elettorale, infine le perquisizioni degli uffici della Generalitat de Catalunya e l’arresto di 14 esponenti indipendentisti.

Nonostante la reazione dura dell’Esecutivo spagnolo, i sostenitori dell’indipendenza catalana non hanno perso slancio ed hanno continuato a manifestare il loro sostegno indiscusso al referendum: per protestare contro gli arresti si sono recati all’esterno della Procura di Barcellona, chiedendo la liberazione dei detenuti e gridando slogan a favore della libertà di espressione.

Il Capo del Governo spagnolo, Mariano Rajoy

Anche Rajoy non si è fatto intimidire dal perdurare della protesta, né tantomeno dal generale sentimento di simpatia nato nei riguardi dei catalani, finora sempre pacifici nell’esprimere le loro rivendicazioni, ed ha disposto l’invio di altri 4 mila uomini e donne della Guardia Civil.

La decisione di inviare un ulteriore contingente, destinato ad aumentare ulteriormente con l’avvicinarsi del referendum, si è reso necessario per le voci riguardanti la Polizia catalana, i Mossos d’Esquadra, molto divisi al loro interno, non del tutto disposti ad agire contro il popolo a cui loro stessi appartengono.

Tre navi cariche di poliziotti sono giunte nei porti di Barcellona e Tarragona da dove forniranno appoggio logistico alle forze di polizia già schierate sul campo; una quarta nave, diretta verso il porto di Palamos, l’unico sotto l’autorità della Generalitat, non è riuscita ad attraccare per il rifiuto degli operatori portuali di fornire alcun servizio. Sabato scorso il procuratore generale dello Stato ha disposto che tutti i Corpi di Polizia locali siano posti, temporaneamente, sotto il comando di un ufficiale della Guardia Civil che risponderà esclusivamente e direttamente al Ministero dell’Interno.

La situazione è in continuo divenire, ed è davvero difficile anticiparne l’evoluzione, tanto più considerato che nessuno si aspettava una simile escalation. Nessuno si aspettava questa escalation perché, stando almeno ai sondaggi degli ultimi mesi, i catalani sono risultati sempre molto divisi sull’opportunità indipendentista.

Alle elezioni in Catalogna del settembre 2015 i partiti indipendentisti, benché abbiano conquistato la città di Barcellona, hanno ricevuto “soltanto” il 48% dei voti. L’analisi post-elettorale dei voti espressi ha mostrato, inoltre, che un quinto di coloro che hanno votato per i partiti indipendentisti, lo hanno fatto con l’esclusivo scopo di costringere il Governo di Madrid a concedere una maggiore autonomia. È opinione abbastanza comune, anche tra gli unionisti, che le decisioni prese da Mariano Rajoy siano state sbagliate, ed abbiano avuto l’effetto “opposto” di rafforzare le posizioni indipendentiste, piuttosto che indebolirle.

È difficile prevedere ciò che succederà perché con il trascorrere dei giorni gli animi si sono scaldati e non è escluso che possano verificarsi scontri violenti tra indipendentisti e unionisti. È innanzitutto difficile capire se la consultazione referendaria del 1° ottobre si svolgerà davvero: aldilà delle considerazioni giuridiche, già esaminate da Report Difesa, è innegabile che attorno al referendum ci sia una forte pressione internazionale. Secondo alcuni la “pressione europea” che avrebbe ricevuto Rajoy sarebbe stata una delle motivazioni principali a scatenare la sua risposta decisa.

I leader europei nelle loro dichiarazioni ufficiali hanno predicato la calma, sottolineando che la questione è un affare interno spagnolo, ma guardano con preoccupazione allo svolgimento del referendum che permetterebbe ai vari indipendentismi presenti sul proprio territorio di riprendere quota, confortati da un importante “precedente”.

In queste ultime si sono fatti risentire gli indipendentisti baschi, mentre la Giunta regionale della Sardegna si è offerta di provvedere alla ristampa e alla distribuzione delle schede elettorali sequestrate dalla Guardia Civil spagnola. Ad oggi, da un punto di vista strettamente legale, il referendum non si dovrebbe tenere, nonostante la Giunta catalana continui a sostenere il contrario: inoltre, è abbastanza improbabile quanto sostiene la Generalitat de Catalunya, ovvero che se vincesse il «sì» entro 48 ore verranno avviate le procedure per la proclamazione dell’indipendenza della Catalogna.

Data la situazione fluida e la difficoltà di capire davvero cosa accadrà il 1° ottobre, si può provare a comprendere cosa accadrà dopo, in caso di vittoria del sì. Il primo problema per la Catalogna riguarderebbe il riconoscimento internazionale, in quanto pochissimi stati al mondo sarebbero disposti a riconoscere il nuovo stato. Di sicuro non ci sarebbe il riconoscimento dell’Unione Europea, organizzazione da sempre recalcitrante ai cambiamenti “imprevisti” e dove il voto contrario della Spagna è scontato, insieme a quello di tanti altri.

La Catalogna vivrebbe nell’assoluto isolamento, ricevendo soltanto il sostegno di altre comunità autonome in giro per l’Europa (baschi, galiziani, corsi, padani, ecc..) che però non gli garantirebbero di poter agire, da Stato, nella comunità internazionale. Ciò si ripercuoterebbe, inevitabilmente, sull’economia: attualmente, la Catalogna rappresenta il 20% del PIL della Spagna, il 25% del totale delle esportazioni e possiede il 23% delle industrie.

Secondo alcune stime il principale vantaggio per i catalani indipendenti sarebbe costituito dai 16 miliardi di tasse dovute a Madrid che, nello scenario della secessione, sarebbero trattenute sul territorio. Sull’altro piatto della bilancia, però, ci sarebbe il problema del commercio: il 35,5% delle esportazioni catalane, precedentemente orientate verso la Spagna, non troverebbero la strada spianata, così come sarebbe difficile da collocare anche il restante 65%. Una Catalogna, con le esportazioni bloccate dall’isolamento internazionale, potrebbe perdere fino al 30% del suo Pil e questo si riverserebbe, inevitabilmente, sui posti di lavoro che andrebbero in caduta libera.

Analogamente a quanto avvenuto per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea si andrebbe ad aggiungere il nodo dell’accesso al mercato unico: il commissario europeo alla concorrenza e vicepresidente della Commissione europea, Joaquín Almunia ha dichiarato a Barcellona che “una parte separata non è un membro dell’Unione europea”, mentre il portavoce della Commissione Pia Ahrenkilde ha indicato che “per l’Unione europea uno Stato indipendente sarà uno Stato terzo”. Nella fase iniziale quel 65.8% di esportazioni catalane andrebbero, potenzialmente, a scontrarsi con le barriere commerciali “standard” nell’ambito del WTO (World Trade Organization), perdendo una grossa fetta della propria competitività.

Uno dei problemi più difficili da affrontare sarebbe la ricerca di un accordo con la ex madrepatria per la ripartizione del debito che nel 2016 ha raggiunto i 1.107 miliardi, ovvero quasi il 100% del PIL spagnolo. Nel caso si trovasse un accordo per una cessione del 19% del debito alla Catalogna, allora ne risulterebbe, in proporzione, un’importante diminuzione del debito a carico della Spagna. Se l’accordo si facesse al ribasso, ovvero attorno al 16% o addirittura ancora di meno il debito spagnolo si avvicinerebbe a percentuali difficili da sostenere. Ancora peggio sarebbe se la Spagna non trovasse un accordo di trasferimento del debito con la Catalogna: in quel caso oltrepasserebbe il 125% del PIL.

Eppoi, infine, ci sarebbe il problema della moneta, dato che la Catalogna non potrebbe utilizzare l’euro e sarebbe di difficile percorribilità l’idea di ritornare alle pesetas. Queste sono le principali problematiche che si potrebbero presentare a partire dal 2 ottobre, il giorno dopo il referendum, e sono afferenti principalmente all’ambito economico.

Ciò dimostra che il Governo Rajoy ha, probabilmente, intrapreso la strada sbagliata per ostacolare il referendum: se avesse preso ad esempio quanto fatto dal Governo britannico nel caso del referendum per l’indipendenza della Scozia nel 2014, ovvero “spaventare” le persone comuni con le difficoltà economiche future, avrebbe ottenuto risultati migliori.

L’utilizzo eccessivo della forza ha, invece, avuto l’effetto contrario di aumentare l’appeal degli indipendentisti, consentendo l’avvicinamento alle loro posizioni di una grossa fetta di indecisi, ovvero di coloro che con il loro voto hanno deciso tutte le ultime elezioni a livello globale.

Piccolo inciso sul’Italia: il 25 ottobre ci saranno i referendum consultivi per una maggiore autonomia in Lombardia e Veneto e l’effetto boomerang è più che una possibilità.

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