Di Paolo Giordani*
MOSCA. Alla fine è accaduto. Lo scenario immaginato in tanti film d’azione, come “Allarme rosso” o “Air Force One”, è ormai realtà in Russia: un signore della guerra si ribella a Mosca e assume il controllo di parte del territorio.
Solo che in quei film degli anni Novanta il ribelle era il “cattivo” da battere e l’Impero americano appoggiava senza esitazione il barcollante regime moscovita uscito dal crollo dell’Unione sovietica.
Oggi è tutto il contrario. E qualche irresponsabile potrebbe perfino compiacersi della “rivolta” di Prigozhin e della sua compagnia di ventura (“gruppo Wagner”) contro il presidente Putin, nemico di turno dell’Occidente dopo l’aggressione all’Ucraina del febbraio 2022.
Con una superficie di 17,1 milioni di chilometri quadrati distribuiti su undici fusi orari, 85 soggetti federali, oltre 200 gruppi etnici e un arsenale di 5.889 testate nucleari (il conto è del “Nuclear weapons ban monitor”), la Russia non è soltanto il più grande Paese al mondo e la seconda superpotenza militare, ma in teoria la massima fonte di rischio geopolitico del pianeta.
Nessun leader sano di mente può augurarsi davvero la destabilizzazione e la disgregazione di quell’immenso spazio, disseminato di ordigni d’ogni tipo, atomici, biologici, chimici.
Dietro simili vaneggiamenti c’è l’antico desiderio di “farla finita per sempre” con l’imperialismo russo, nella convinzione che la Russia non potrà mai cambiare né democratizzarsi: o è impero o non è. Quindi, sragiona qualcuno, meglio “non è”.
No, il rischio è troppo grande. In tutte le sue incarnazioni storiche – zarista, comunista e postsovietica – la Russia è sempre stata un’”autocrazia” (samoderzhavie), in quanto capace di contenere/trattenere/sostenere (derzhat’) tutte le diversità che ora, o nel prossimo futuro, potrebbero esplodere con conseguenze imprevedibili. Se si accompagnasse alla frantumazione della Federazione russa, anche la caduta di Putin sarebbe un incubo.
*Presidente Istituto Diplomatico internazionale (IDI) – Roma
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