Immigrazione, le parole che spaventano: blocco navale

Di Vincenzo Santo*

Roma. Siamo ormai in inverno. Con il suo freddo e, nonostante che i teorici dei cambiamenti climatici ci dicano che ci stiamo via via scaldando, è ancora facile che in questa stagione faccia ancora per un bel po’ freddo e tiri vento. Probabile, qualcuno avrà pensato, che con queste atmosfere ghiacciate il traffico dal Nord Africa si blocchi. Ne dubito, mi viene da precisare, dato che i malfattori mi risulta si fermino solo in condizioni estreme di stato del mare.

Un barcone di migranti tenta la via dell’Europa

Non è stato così a quanto pare e sia la spagnola “Open Arms” sia le più recenti “Sea Watch” e “Sea Eye” ce lo hanno sbattuto in faccia. Ma è soltanto il traffico che emerge, non sappiamo cosa realmente accada fuori cronaca e quante imbarcazioni “normali”, da diporto e anche a vela, trovino terra e si spiaggino sulle nostre coste senza che la stessa cronaca ne possa dare traccia.

Vale poco dire che sapevo che sarebbe accaduto di nuovo. E chissà che cosa avverrà appena il tempo diverrà più clemente. Non manca molto in verità. L’equinozio di primavera si avvicina. E prima o poi, dopo Malta, dopo la Spagna, dopo la Francia, il Vaticano e i Valdesi, toccherà anche a noi, malgrado il muso duro di Salvini, riaccogliere qualche disperato irregolare. La pressione politica internazionale sarà ingestibile.

Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini

Perché? Semplicemente perché questa tratta degli schiavi non la si sta combattendo sul serio.

Sia ben chiaro che una cosa è dire che non si vogliono più clandestini in Italia, quindi si chiudono i porti, altro è dire e promettere di combattere questo traffico. Cosa questa che, se messa in pratica, soddisfarebbe anche il primo più limitato obiettivo. Vantarsi invece di voler combattere quel traffico e, nei fatti, limitarsi a chiudere i porti nazionali significa, in alternativa, o che non si hanno le idee chiare oppure che si sta prendendo in giro “il popolo”, come lo si chiama oggi.

Quindi, si parla di due obiettivi differenti. Il primo produce solo fumo negli occhi, anche perché lasciare poi che sia il Vaticano a prendersi cura di qualche decina di immigrati irregolari svaniti poi nel nulla nel giro di poche ore, sul territorio italiano comunque, è stata cosa ridicola. Ora vediamo che cosa farà la Chiesa Valdese. Comunque, esso configura un approccio tattico al problema, misura che, senza una strategia che lo sostenga, rischia di divenire un bluff. E io temo che sia solo una modalità che debba accompagnare una perenne campagna elettorale, mai smessa. Mentre il secondo implicherebbe un impegno più serio e molto più radicale delle attuali operazioni a guida Unione Europea o della nostra stessa Nazione. Insomma, in termini medici, il primo mira a curare gli effetti e male, mentre il secondo andrebbe sulle cause, almeno quelle di secondo livello.

A luglio scorso, in un mio articolo su questa stesso quotidiano, fingendo di rivestire il ruolo, che in Italia non esiste, di Consigliere Nazionale per la Sicurezza e capo del relativo Consiglio Nazionale, avevo abbozzato un simulato “memo” indirizzato al presidente del Consiglio. In quelle pagine avevo abbozzato alcuni punti, pur sommari, che ritengo ancora oggi utili per iniziare a strutturare una strategia che aiuti a fronteggiare il fenomeno. Tra questi punti, avevo parlato anche di “… avviare una propria operazione che preveda il blocco navale all’interno delle acque libiche … prevedendo anche incursioni volte a distruggere le basi operative dei trafficanti …”.

Fratelli d’Italia presentava, a seguito di quelle righe, un’interrogazione parlamentare. Nella seduta di martedì 18 settembre, il sottosegretario alla Difesa, Angelo Tofalo, riferendo in Parlamento e leggendo ciò che evidentemente gli era stato preparato, precisava che “… il quadro normativo internazionale riconosce tale misura come un metodo di guerra e quindi legittimamente adottabile solo nel caso di conflitto armato internazionale sul mare … la sua adozione nei confronti di uno stato terzo equivale a dare inizio a un attacco armato …”. Parole che tradiscono la fragilità e l’incapacità nazionali nel formulare, con il necessario coraggio e con l’indispensabile cinismo, due degli ingredienti di un’efficace politica estera, una strategia seria che si ponga obiettivi concreti, cioè, non da avanspettacolo.

E il ridicolo di questa risposta, messa sulla bocca del sottosegretario, che considero colpevole di superficialità, sta nelle seguenti specifiche: “solo nel caso di conflitto armato internazionale sul mare” e “la sua adozione nei confronti di uno stato terzo equivale a dare inizio a un attacco armato”. Il pensiero mi va ai sauditi che pur un blocco lo stanno conducendo al largo delle coste dello Yemen, e non mi pare che quella guerra si stia sviluppando sul mare o solo sul mare. Oppure quello israeliano al largo delle coste di Gaza, con una situazione conflittuale che si combatte a botte di intifade e razzi altrove.

E poi, francamente, è risibile quella specifica di “conflitto armato internazionale”. Quando, io mi chiedo, un conflitto assurge all’onore di essere definito internazionale o quando invece deve essere declassato a regionale? Proprio oggi, quando la globalizzazione tende a uccidere tempi e distanze, vengono proposte e accettate queste distinzioni? Sono stupidaggini.

E poi, non siamo in guerra? Se non lo siamo, perché partecipiamo ad operazioni in Afghanistan, in Iraq, mandiamo forze militari nel Niger o in Libia? E, soprattutto, perché autorizziamo i droni americani a decollare per il Nord Africa? Autorizzando questo, non abbiamo già iniziato un “attacco armato”? Ci siamo mai chiesti che cosa facciano questi droni, oppure crediamo che siano su quei cieli per realizzare un meraviglioso album fotografico sulla Libia (e non solo)? E se non stiamo in guerra – ma, mi dicono che lo siamo contro il terrorismo – perché abbiamo un’operazione in atto con la nostra Marina denominata “Mare Sicuro”?

E ancora, di quale Libia si sta parlando? Quella di Tobruk, quella di Tripoli o del Fezzan? Non c’è già una guerra in Libia? O riteniamo che, appoggiandone una parte – per me quella sbagliata – e garantendo la base per quei droni, di non farne parte? Se così fosse, cari italiani, siamo alla follia. Infine, ci facciamo tanto scudo del quadro internazionale eppure abbiamo consentito una campagna di annientamento del regime di Gheddafi, in barba ai limiti della risoluzione del Consiglio di Sicurezza numero 1973 del 2011, che di fatto voleva imporre solo una no-fly zone.

Pertanto, al Tofalo hanno fatto riprodurre in modalità karaoke un mare – adesso ci vuole – di sciocchezze. Questo è il livello di molta della gente che siede nei nostri governi. Ahimè, nessun cambiamento in questo.

La realtà è che in Libia, chiunque si consideri alla sua guida, non c’è un reale controllo del territorio, specifica indispensabile per avvalorare la sua sovranità. E questi flussi migratori incontrollati, che in effetti rappresentano un vero e proprio commercio di schiavi, costituiscono una minaccia seria per la sicurezza e per la percezione della sicurezza, non ultimo per il fatto che non mi risulta ci sia qualcuno, in grado di intendere, che possa escludere che nel mezzo si possano nascondere terroristi o veicolarne futuri.

Con l’aggravante che, volenti o nolenti, le ONG di fatto favoriscono questo commercio, a volte con un discutibile approccio misto tra sfida, minaccia e ricatto nei confronti di un Paese sovrano, il nostro. Proprio come farebbero i pirati.

Quindi, il blocco navale è sicuramente un atto di guerra. Ma noi siamo in guerra. Di questo, si è già scritto su queste pagine anche molto di recente, dobbiamo convincercene. E di blocco navale altri più qualificati di me e ben prima di me, in quanto marinai, hanno parlato, dal De Giorgi al Lertora. Tuttavia, comprendo che la parola faccia tanta impressione, e che spaventi financo. Cambiamogli pure il nome, allora. Chiamiamola “Interdizione Marittima”.

Come, del resto, tale fu quella attuata ai tempi dei flussi albanesi negli anni ’90, in base a un accordo con Tirana del marzo 1997. Un approccio forse più soft, che tanto piace a noi italiani, ci aiuta ad aggirare il vero senso delle parole. E, in fin dei conti, non siamo amici dell’inutile Al-Serraj? Non gli stiamo addestrando la guardia costiera e, infine, non gliela stiamo equipaggiando?

I marinai saranno più bravi di me nell’illustrare un modello di dispositivo. Peraltro, tracciando a memoria quello che ho avuto modo di imparare nei miei trascorsi da “pianificatore”, potremmo ipotizzare a grandi linee:

  • un dispositivo d’alto mare con 5 o 6 unità d’altura, come fatto per “Mare Sicuro, per la sorveglianza ottico-radar delle coste libiche della Tripolitania, diciamo tra Misurata e il confine tunisino (circa 200 miglia marittime), tanto per cominciare, con integrazione di sorveglianza aerea con droni (rieccoli) e velivoli e elicotteri per il pattugliamento marittimo;
  • un dispositivo “costiero” con imbarcazioni della nostra guardia costiera e della nostra finanza e, ovviamente, della guardia costiera libica;
  • aliquote di Forze Speciali imbarcate per la condotta di “azioni dirette” sulla costa (e non solo).

Basta rimodulare l’operazione “Mare Sicuro”, magari integrandovi la Themis di Frontex, e porre termine alla superflua “EUNAVFORMED Sophia” (pagata principalmente dagli Stati partecipanti e non dall’UE, a parte qualche minimo costo comune) che, paradossalmente, nella mente di chi l’aveva ideata, nella sua terza fase doveva fare proprio quello che andiamo dicendo. Ma si è fermata a metà strada.

Allora facciamolo noi, anche da soli! Lo strumento nazionale è in grado di produrre questo sforzo, ferma restando la necessità di garantire regole di ingaggio che consentano ai comandanti di lavorare con responsabile serenità, senza il timore di incorrere in vicende giudiziarie come quella che vide coinvolto l’allora comandante della nostra corvetta “Sibilla” la quale, dopo aver fortuitamente speronato una motovedetta albanese, rubata dai criminali albanesi e riempita di emigranti, causò la morte di 108 cittadini albanesi.

Ecco, come già scritto in altro articolo, siamo in guerra, quindi la magistratura non si sogni di dettare l’esecuzione e i tempi delle necessità militari. Va da sé che le operazioni di soccorso e recupero rimangono valide, ma coloro che venissero recuperati devono essere sbarcati sulle coste libiche, oppure, se temiamo che la Libia non sia un luogo sicuro, su quelle delle nazioni africane più vicine. Anche in questo sta l’abilità diplomatica di uno stato che si rispetti.

In definitiva, l’effetto da conseguire è quello psicologico. Cioè cancellare dalla mente dei trafficanti e degli emigranti l’idea che, una volta saliti a bordo di un qualsiasi battello sia ormai cosa fatta, che prima o poi si arriverà nella nuova terra promessa, l’Europa, che sia l’Italia o altro paese.

Di certo, lo strumento navale non basterebbe da solo e lo studio e l’analisi dell’end state che si intende conseguire e della missione che si intende assolvere potrebbe obbligare a impiegare altro.

Ma il punto è che non ci si deve spaventare delle parole e, soprattutto, si deve avere chiaro in testa a che cosa veramente vogliamo porre fine, se davvero si è intenzionati a non subire ricatti morali ricorrenti con navi di ogni tipo che girovagano per il Mare Nostrum alla ricerca di un approdo europeo. E, ancora, se davvero siamo schifati come uomini di questo mercanteggio e cristianamente desiderosi di scongiurare il verificarsi di ulteriori tragedie in mare.

Pertanto, la domanda è: vogliamo sul serio porre termine a questo traffico? Se sì, allora occorre che ci si metta l’animo in pace e impiegare lo strumento militare per quello che è, pretendendo che il dossier Mediterraneo centrale sia in mani nostre. Se è no, allora andiamo avanti così e chissà per quanto ancora, affidandoci a periodiche e stantie eruzioni caratteriali.

Del resto, le buche di Roma qualcuno le dovrà riempire, no?

*Generale di Corpo d’Armata (Ris) dell’Esercito

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