Cina, l’economia socialista nel mercato nel Terzo Millennio

Di Giuseppe Gagliano*

La strategia di investimenti globale cinese è altamente rappresentativa del nuovo modello economico avviato al volgere del millennio: l’economia socialista di mercato.

Nella gestione di programmi diversificati di investimento e acquisizione all’estero, la Cina ha infatti conservato il ruolo centrale dello Stato, che si riserva la decisione finale da prendere in base alla corrispondenza con gli interessi della strategia nazionale, la quale è incentrata su due obiettivi. Mentre il primo consiste nel garantire le materie prime necessarie al funzionamento dell’economia cinese, il secondo è individuabile nell’acquisizione di tecnologie che possano garantire il progresso qualitativo dell’industria.

Lo sviluppo di questa strategia può essere fatto risalire al 2005, quando il gigante cinese Lenovo ha acquisito una divisione del colosso americano IBM. Non si tratta però di uno scenario esclusivamente popolato di successi, come ricorda il caso della mancata acquisizione dell’azienda petrolifera californiana UNOCAL.

Per quanto riguarda il primo punto, con il progredire della crescita economica, la Cina si è resa ben presto conto dell’insufficienza di determinate materie prime, iniziando proprio dal petrolio per arrivare ai metalli.

Per quanto riguarda il petrolio, già nel 1994 la Cina era passata da esportatore a importatore di questa risorsa, per giungere nel 2012 a importare ben il 58% del proprio fabbisogno. La strategia di investimenti globali resta tuttavia in mano ai tre principali gruppi cinesi del settore, riuniti sotto la sigla CNPC (China National Petroleum Corporation) che hanno scelto approcci diversi sotto il comune denominatore del pragmatismo.

Oltre che del tradizionale acquisto di concessioni in Paesi ricchi di petrolio, come l’Iraq, la Cina si è servita dell’acquisizione di concessionarie come Addax Petroleum e Nexen per incrementare le riserve sotto il proprio controllo. Il settore petrolifero, nonostante alcuni grandi successi, ha nel contempo registrato anche i maggiori insuccessi, come il sopraccitato caso UNOCAL, o ancora il fallimento dell’accordo YPF a causa dell’opposizione argentina.

Per aggirare questo problema politico, i giganti cinesi hanno spesso fatto ricorso a modelli di azione Stato-a-Stato, oltre che a meccanismi di mercato in altre aree del pianeta.

Si sono pertanto verificati casi di associazione con colossi mondiali del settore finanziario: per esempio, tra il 2009 e il 2010, la Banca per lo Sviluppo cinese si è impegnata con Rosneft, PDVSA e Petrobras, ottenendo consegne annuali di oltre 35 milioni di tonnellate di petrolio greggio in cambio di linee di credito per oltre 45 miliardi di dollari.

Se nell’ambito del petrolio solo un numero limitato di aziende domina la scena, la situazione è ben diversa nel campo dei metalli, fermo restando il ruolo centrale che lo Stato ricopre nel controllo. Il processo ha implicato investimenti all’estero, sia in aziende specializzate nel commercio di metalli, con il coinvolgimento dei colossi China Minmetals e SinoSteel, sia in miniere di ferro e rame situate in diversi continenti.

In questo scenario, l’attore più importante è però il produttore di alluminio Chinalco. Impegnato nello sviluppo di miniere in Africa e Sudamerica, Chinalco si è fatto inoltre portavoce degli interessi cinesi, che difende dai tre giganti mondiali del settore: la Vale (Brasile), la BHP Billiton e la Rio Tinto (Australia). Nel tentativo di limitarne l’influenza, nel 2008 la Chinalco ha cercato di acquistare la Rio Tinto, fallendo a causa di una presupposta contrarietà della BHP Billiton. Questo fallimento, pur avendo sottolineato i limiti della strategia globale cinese, ha permesso al Paese di porsi in una relazione di potere con gli altri giganti mondiali del settore.

Queste operazioni intraprese da colossi appoggiati dallo Stato sono state accompagnate da azioni di aziende private o di minori dimensioni. È tuttavia innegabile che Pechino intende porre sotto il suo controllo qualsiasi progetto di una certa portata: le materie prime rappresentano un tema troppo delicato per permettere che attori esterni prendano il sopravvento.

Passando ora al secondo punto, ossia l’acquisizione di tecnologie, è necessario considerare innanzitutto la sua determinante importanza, in quanto permetterà alla Cina di ottenere un ruolo di primo piano trasformandosi da semplice produttore a sviluppatore. Rispetto all’ambito delle materie prime, gli attori sono maggiormente diversificati, riflettendo la vastità degli obiettivi: accanto ai giganti di proprietà dello Stato, si trovano anche piccole imprese votate alla globalizzazione per ragioni esclusivamente economiche. Questa strategia, avviata dapprima in comparti dove la Cina si era imposta come produttore leader a livello mondiale, si è diffusa in seguito anche a settori emergenti. Per comprenderne meglio l’espansione, si possono analizzare due settori rappresentativi delle rispettive fasi: l’elettronica e l’automobile.

Per quanto riguarda l’elettronica, la Cina può essere considerata il centro produttivo mondiale: oltre il 60% dei Pc e il 50% dei televisori è assemblato entro i confini cinesi. Fino al 2005, questo importante primato poteva essere raggiunto solo grazie alle aziende straniere, in quanto più del 90% della produzione era commissionato da marchi stranieri.

Il primo forte segnale della volontà della Cina di invertire questa tendenza può essere individuato nell’acquisizione di una divisione dell’IBM da parte di Lenovo. Tra i numerosi vantaggi di questa mossa si individuano l’acquisizione di una rete commerciale internazionale, di un marchio e di tecnologie ormai affermati. Nel periodo iniziale, la nuova formazione ha attraversato una fase di instabilità, risolta con l’avvento del presidente Liu Chuanzhi, che ha saputo valorizzarne l’attività tanto da portare all’acquisizione di numerose aziende come NEC, Medion e CCE, ottenendo nel 2012 risultati molto vicini a quelli del gigante HP.

Accanto a questa storia di successo si registrano tuttavia numerosi fallimenti, come quello del Gruppo TCL, rovinato dall’acquisizione del marchio francese di televisori Thomson. Sebbene all’inizio si fosse rivelata una mossa vincente, in soli cinque anni il nuovo gruppo perse quota rapidamente: l’avvento delle TV LCD l’aveva infatti colto di sorpresa. Questo strepitoso fallimento ha però insegnato alla Cina una lezione importante, seguita negli investimenti in campi più complessi come quello dell’automobile.

Contemporaneamente al tentativo di trasformarsi da produttore a sviluppatore nel campo dell’elettronica, la Cina ha iniziato infatti a occuparsi di settori industriali con un promettente mercato interno, proprio come quello dell’automobile. Anche in questo caso, il primo passo importante può essere ricondotto al 2005, quando, con la bancarotta del principale Gruppo automobilistico inglese, le aziende cinesi SAIC e Nanjing Auto acquistarono rispettivamente Rover e MG. Due anni dopo SAIC, il principale costruttore di auto cinese, acquistò Nanjing Auto, concentrando definitivamente l’ex gruppo inglese nelle mani di un solo produttore cinese.

A questa mossa orchestrata da un colosso di proprietà dello Stato ne seguì un’altra, organizzata tuttavia da un gruppo privato: nel 2010, il Gruppo cinese Geely acquistò Volvo, con notevoli miglioramenti nel posizionamento tra i maggiori produttori di auto a livello mondiale. L’attuazione di una strategia globale non era quindi riservata esclusivamente allo Stato.

All’interno di questo panorama molto diversificato, gli investimenti globali della Cina possono apparire come una sequenza spontanea e disorganizzata. A un’analisi più approfondita, tuttavia, si nota chiaramente che la spontaneità che caratterizza la fase di esplorazione scompare completamente in sede di convalida, di trasformazione delle opportunità in azioni concrete, facendo emergere il ruolo centrale dello Stato.

Nell’ambito delle materie prime, un esempio rivelatore concerne il caso Hanlong, Gruppo coinvolto in operazioni relative alle miniere in Africa. Nel 2011, Hanlong annunciò di aver preso parte a un progetto del valore di 3 miliardi di dollari in Tanzania, seguito nel 2012 dalla firma di un contratto d’acquisto per un’azienda australiana concessionaria di una miniera di ferro in Camerun.

Lo Stato considerava questa ambizione potenzialmente problematica a causa della storia torbida di Hanlong: il presidente del Gruppo, oltre a essere stato oggetto di un tentato omicidio, aveva un fratello indicato come mandante di tre delitti. La richiesta di fondi statali per il finanziamento del progetto di internazionalizzazione aveva quindi sollevato numerose perplessità. Lo Stato, dopo un tentativo di ostacolare le trattative per l’acquisto dell’azienda australiana, proprio pochi giorni prima della firma del contratto fece arrestare il presidente di Hanlong per aver nascosto il fratello ricercato.

Questo caso estremo rappresenta un’eccezione, poiché di norma i tentativi di investimento sono sotto il controllo delle banche, che possono erogare prestiti solo su istruzione dello Stato e del Partito Comunista. Un esempio illuminante della strategia statale si individua nei casi Volvo e Saab.

Nel 2010, al momento di acquistare la Volvo, la Geely chiese un consistente finanziamento, che la banca avrebbe concesso solo dopo il nulla osta di Pechino. Considerando che il precedente proprietario della Volvo non avrebbe impedito il trasferimento tecnologico, il prestito fu erogato. Nel 2012, quando due piccoli produttori cinesi chiesero prestiti di importo molto inferiore per l’acquisto del Gruppo svedese Saab, Pechino negò il permesso. Il precedente proprietario si era infatti opposto al trasferimento tecnologico, eliminando di fatto il principale motivo di interesse per l’acquisizione.

Da questi casi risulta dunque evidente che, sebbene le acquisizioni cinesi possano sembrare mosse spontanee e scoordinate, rientrano in realtà nel quadro più ampio di una strategia: devono dunque garantire le risorse necessarie all’industria o favorire l’acquisizione di nuove tecnologie, contribuendo alla costruzione dell’economia socialista di mercato della Cina.

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