Sicurezza: tutte le grandi manovre sul Cloud nazionale

Di Vincenzo Santo*

Roma. La settimana scorsa, per caso, mi è capitato tra le mani un articolo su “Il Messaggero” intitolato “Cloud nazionale, si accende il confronto sul ruolo trainante rivendicato da Tim”.

Le grandi manovre finanziarie sul Cloud nazionale

Mi ha interessato, anche se, ne sono certo, ai più la cosa è passata inosservata. E invece dovrebbe interessare.

Il progetto è fortemente voluto dal ministro per l’Innovazione tecnologica Vittorio Colao, appoggiato con forza da un altro ministro, quello per l’Economia e le Finanze, Daniele Franco.

Il ministro per l’Innovazione tecnologica Vittorio Colao

Insomma, l’Italia deve dotarsi di una piattaforma hardware e software, in grado di far scalare al nostro Paese la classifica Desi (Digital Economy and Society Index), l’indicatore dell’Unione europea sui servizi digitali che ci vede da anni agli ultimi posti, per la razionalizzazione e il consolidamento dei Centri di elaborazione Dati (Polo Strategico Nazionale – PSN) con lo scopo di portare il 75% circa delle pubbliche amministrazioni nazionali (centrali, sanitarie e locali) a utilizzare servizi in cloud per il 2026, secondo il “respiro” del PNRR.

Nel piano, sarebbero destinati circa 2 miliardi di euro e Colao avrebbe espresso la volontà di chiudere entro il 2022 il trasferimento nel cloud.

Nel progetto, la Cassa Depositi e Prestiti guidata da Scannapieco avrà un ruolo di primo piano.

E fin qui, niente da dire, se non fosse che c’è TIM.

Ed è proprio su TIM che si dovrebbero focalizzare le attenzioni dato il carattere strategico del progetto, che postula delicati risvolti inerenti alla sicurezza nazionale essendo la società partecipata al 23,94% da un azionista francese e quindi, proprio per la sensibilità dei temi riguardanti la sicurezza, soggetta al golden power.

Ora, nonostante la governance della società preveda una guida operativa italiana, la maggioranza relativa delle azioni è in mano a Vivendi con tutte le prerogative che il codice civile assegna a chi possiede una quota di tali dimensioni.

Dargli quindi, a mio avviso, il cloud nazionale grida allo scandalo.

Fino a pochi giorni fa, due erano le cordate in corsa per la realizzazione, la prima con Fincantieri (tramite la controllata NexTech SPA), Amazon, Fastweb e Irideos e la seconda con Tim, Leonardo, Google, Microsoft e Aruba.

Lo scorso maggio, Fincantieri e Amazon hanno firmato un accordo di cooperazione per accelerare l’innovazione digitale e lo sviluppo tecnologico del Paese.

Fonti Web segnalano che a seguito della crescente cooperazione fra Tim-Google-Leonardo, Fincantieri avrebbe stabilito un accordo con Fastweb e Irideos.

Il vantaggio sembra arridere a Tim che, a differenza di Fincantieri, nonostante le sue alleanze “nazionali” (Fastweb e Irideos) non possiede le infrastrutture a differenza di Tim.

E, a conferma, sembra che Cassa Depositi e Prestiti avrebbe costituito una newco insieme a Tim e Leonardo (Cdp al 51% e le restanti azioni per Tim e Leonardo) escludendo Fincantieri dal progetto.

Nel progetto potrebbe prendere posto, a fianco di leonardo, anche Sogei.

Tutto bene, tutto bello e, da dire, finalmente.

Ma la sovranità dei dati? In Francia, ad esempio, è stato previsto che tecnologia o software extra-Ue possano essere utilizzati soltanto su licenza o fornitura, lasciando il pieno controllo a soggetti europei. Una soluzione cui sta guardando anche l’Italia.

Una scelta necessaria per non ricadere sotto il Cloud Act americano che fissa un obbligo per gli operatori, in caso di un mandato dell’autorità giudiziaria e di reati particolarmente gravi, di fornire i dati in proprio possesso anche se archiviati presso server situati all’estero.

Perché, dobbiamo ammetterlo, la principale tecnologia del settore è americana, ecco perché vediamo nelle cordate i colossi americani: Google, Microsoft e Amazon.

A fattor comune quindi le criticità “americane”, ma quella di Tim ne presenta un’altra. Tim, come accennato, è italiana solo “di facciata”.

È, di fatto, francese e si chiama Vivendi. Vecchia storia quella di Tim e ormai archiviato il tracciato che ha visto questa compagnia andare oltralpe.

Certo che esiste la partecipazione di CDP (meno del 10%) e la potenza del Golden Power. Ma, pur essendo convinto che le autorità giudiziarie francesi non abbiano la facoltà di chiedere i dati a Vivendi, il pericolo da non sottostimare è di governance, con i dati “nazionali” che possono tranquillamente transitare ai francesi in modo non convenzionale.

È bene essere realisti.

Al momento che scrivo, quindi, parrebbe che un orientamento deciso a favore di Tim sia stato già preso, secondo una logica di partenariato e non di gara come ci si aspetterebbe, a conferma, secondo me, dell’estrema leggerezza con cui queste questioni vengono trattate, anche perché, e su questo dobbiamo essere chiari, per buona parte dei politici Parigi è amico, dimenticando, tuttavia, il voltafaccia francese per la faccenda dei cantieri STX, che pure loro avevano in precedenza venduto ai coreani, ma che fosse un’impresa italiana ad impadronirsene non l’avevano digerito.

Ora, all’insegna dell’italianità spunterebbe, pare, un’altra cordata. Inaspettata e di rottura per il “clan politico filofrancese”.

Porta il nome di due campioni esclusivamente nazionali: Almaviva e Aruba.

Avrebbero presentato una manifestazione d’interesse congiunta, per una soluzione che, oltre a velocità e qualità, garantirebbe la sicurezza nazionale dei dati, senza avere in prima fila i colossi esteri del settore, ma presenti a supporto ma con una soluzione tipo francese per difendersi dal già citato Cloud Act americano.

L’opzione Aruba potrebbe mettere in un angolo Leonardo e la Tim? Lo vedremo, ma i nostri simpatizzanti francesi non si arrenderanno.

Della sicurezza nazionale, del resto ci è sempre interessato ben poco.

*Generale di Corpo d’Armata Esercito – Ris

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