Afghanistan: la “Grand Strategy” richiede di avere tanto pelo sullo stomaco

Di Vincenzo Santo*

Kabul. Emerge in queste ore un esercizio di pensiero volto a mettere in risalto i costi della guerra in Afghanistan.

In volo sui cieli afgani

Ci hanno pensato il sempre temuto SIGAR (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction), uso a fare le pulci ai rappresentanti, anche militari, americani nel Paese, e il Watson Institute della Brown University.

Un esercizio meritorio che va bene per la statistica.

Ma qualcuno tende a strumentalizzarne l’utilizzo per voler misurare come tutto ciò che sia stato speso sia stato vano.

Diciamo che, riferendoci esclusivamente ai costi per le sole operazioni di combattimento, questi si aggirano sui mille miliardi di dollari.

Poi, a essi, andrebbero aggiunti altri costi collaterali per interessi, incrementi di bilancio e così via.

Incluso quanto speso per mettere in sesto, diciamo così, il braccio armato afgano, si sale sui 2.300 miliardi circa. Con circa 2.100 morti.

Ora, mettiamo a confronto questi dati, che sono la sintesi pur amara di venti anni di impegno, con quelli in Vietnam.

Un’immagine della guerra del Vietnam

Qui, solo per un decennio e non 20 anni, diciamo dal 1965 al 1975, il riferimento si pone sui circa 850 miliardi (già “aggiustati” con l’inflazione) per le sole operazioni di combattimento, lasciamo stare il resto, e ben più di 58 mila americani morti.

Eppure, anche dal Vietnam, a un certo punto gli USA se ne andarono.

Ora, la domanda, è stato più vano andarsene dall’Afghanistan oppure dal Vietnam? Lo so, non merita alcuna risposta, ammesso che ce ne sia una e che sia seria.

E non ce n’è, infatti. Semplicemente perché non avrebbe alcun senso.

Intanto non ha senso fare un parallelo tra i due eventi che, tuttavia, hanno di certo avuto lo stesso epilogo disastroso in termini tattici, emozionali.

E si sa che l’emozione alimenta la cronaca.

Le immagini dell’uno le ricordiamo, di questo più recente ce le abbiamo sotto gli occhi ogni santo giorno.

Peraltro, per il Vietnam, Saigon resistette per ben un paio d’anni prima che i comunisti del Nord prendessero il sopravvento, ma non con l’aiuto della Cina.

La caduta di Saigon (1975). Carri armati entrano nel palazzo presidenziale

E che c’entra ora la Cina? Entra di diritto, invece, per il semplice fatto che gli USA decisero di andare via proprio perché il loro obiettivo strategico era stato raggiunto, cioè la rottura del fronte comunista tra Mosca e Pechino.

Kissinger e Nixon erano riusciti a inserirsi tra le pieghe di un sodalizio comunque già incerto. Con buona pace di Saigon e dei propri morti, e dei dollari sborsati.

E in Afghanistan? È accaduta la medesima cosa. O quasi.

Nel mondo, infatti, qualcosa è cambiato e c’è un pericoloso attore mondiale in decisa ascesa.

Non cosa da poco. Certo, il collasso “tattico” anche qui è indiscutibile, ma questo non ha nulla a che fare con l’obiettivo strategico che gli USA si sono ora posti, cioè mantenere quella cerniera tra Oriente e Occidente instabile al minor costo possibile, allo scopo di rendere molto più problematica la proiezione cinese verso Occidente e, quindi, per indirizzare invece maggiore attenzione e più potenza possibile a Oriente.

Laddove Pechino appare più determinata e proattiva, con l’evidente obiettivo di estendere la propria influenza e “sovranità” sul ricco e “geostrategicamente” fondamentale Mar Cinese Meridionale, intanto.

Il Presidente cinese, Xi Jinping

Del resto, come precisato da Biden, gli USA non hanno più bisogno di stare in Afghanistan per combattere il terrorismo.

Una frase dirimente che sta a indicare e confermare che gli americani sì “escono” ma “non vanno via”, “intelligenti pauca”.

Poco male se non fosse che tra quelle acque c’è una fastidiosa presenza per la Cina, ed è Taiwan, un alleato di fatto degli americani. Lo ha appena dichiarato sempre Biden, aggirando la consueta “ambiguità strategica”, l’impegno USA a difendere l’isola.

E altri alleati che fremono, Giappone e Corea del Sud soprattutto, timorosi di essere lasciati soli dinanzi alle pazzie di un Kim Jong-un e alla prepotente esuberanza del Dragone.

Kim fotografato con un gruppo di militari

Riuscirà questa strategia? Lo vedremo, intanto la polpetta avvelenata gli americani l’hanno lanciata, convinciamocene.

Ma la partita è appena iniziata, e bisogna avere tanto pelo sullo stomaco per perseguirla.

La “Grand Strategy” lo richiede, quindi, non sottovalutiamoli.

I “cuori di panna”, invece, si fermano alla cronaca.

*Generale di Corpo d’Armata Esercito (Ris)

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