Medio Oriente: sul campo Gaza City è ormai accerchiata. I sauditi rinviano (ma non abbandonano) il percorso di normalizzazione delle relazioni con Israele

Di Fabrizio Scarinci

GAZA. Negli ultimi giorni l’IDF ha comunicato che l’accerchiamento di Gaza City sarebbe ormai stato completato.

Durante la loro avanzata, se si escludono alcune imboscate in funzione anticarro (condotte prevalentemente a partire dalla fitta rete di tunnel scavata da Hamas nel sottosuolo della Striscia), almeno finora le forze israeliane avrebbero incontrato una resistenza tutto sommato debole.

Naturalmente, quando le truppe di Tel Aviv inizieranno a penetrare all’interno dei centri urbani (in primis quello della stessa Gaza City) la situazione potrebbe iniziare a cambiare.

Tra i palazzi in rovina e i cumuli di macerie, infatti, Hamas dovrebbe essere in grado di offrire una resistenza significativamente superiore, che ben difficilmente potrà essere superata senza affrontare aspri combattimenti.

Soldati israeliani durante una sessione addestrativa. L’ingresso all’interno di strutture altamente protette potrebbe caratterizzare molte delle azioni condotte all’interno di Gaza

Nel frattempo, a Washington e Tel Aviv si è senz’altro accolta in modo molto positivo la notizia secondo cui l’Arabia Saudita avrebbe deciso di non abbandonare (ma solo di rimandare al 2025) gli accordi di normalizzazione delle proprie relazioni con Israele.

Dovuta in buona parte alla paziente opera di mediazione posta in essere nelle ultime settimane dal governo statunitense, tale decisione, che per chiunque volesse sabotare il suddetto processo rappresenta, senz’altro, un cocente sconfitta, sembrerebbe, infatti, confermare la convinzione (soprattutto israeliana) secondo cui, almeno nel medio termine, il rapporto tra Tel Aviv e suoi vicini potrebbe perfino trarre beneficio dal rovesciamento del governo filo-iraniano di Hamas.

Infatti, nonostante la palese ostilità delle loro opinioni pubbliche rispetto alle recenti azioni militari di Israele, non si può non sottolineare come la principale fonte di preoccupazione della maggior parte dei governi arabi continui comunque a risiedere nelle politiche portate avanti da Teheran e dai suoi alleati regionali, e neppure il fatto che sauditi, emiratini ed egiziani siano in procinto di entrare insieme agli iraniani nel famigerato gruppo dei BRICS sembrerebbe aver cambiato più di tanto questo stato di cose.

In tale contesto, sarà, però, necessario trovare una soluzione credibile per il dopo-Hamas.

A tal proposito, gli occhi di tutti sembrerebbero essere puntati sull’Autorità Nazionale Palestinese, il cui anziano leader Abu Mazen avrebbe dato agli USA la propria disponibilità ad assumere il governo della Striscia a patto che essi riescano a far digerire a Netanyahu la soluzione dei due Stati.

Abu Mazen, Presidente dell’ANP

Cosa farebbero in tal caso gli iraniani non è ancora dato saperlo; del resto anche qualora perdessero Hamas e vedessero fortemente ridimensionato il proprio ruolo rispetto alla questione israelo-palestinese, potrebbero ancora sfruttare i miliziani sciiti di Hezbollah al fine di continuare ad esercitare una certa influenza nell’area.

Altri problemi potrebbero, poi, essere causati dalla Turchia di Erdogan, ideologicamente affine alla Fratellanza Musulmana e anch’essa incline (almeno dal 2011) a sostenere Hamas, che non considera un’organizzazione terroristica ma piuttosto un movimento di liberazione nazionale.

Ma le principali ragioni di tale comportamento sembrerebbero non essere solo di natura ideologico-religiosa.

Non diversamente dalla dirigenza iraniana, infatti, anche quella turca sembrerebbe aver compreso come il mantenimento di un atteggiamento ostile nei confronti di Israele possa conferire influenza rispetto alle masse islamiche e, considerando, le ambizioni “neo-ottomane” della Turchia contemporanea, tale linea d’azione sembrerebbe la più confacente ai suoi obiettivi.

Per quanto riguarda, in particolare, la gestione del conflitto, Ankara si sarebbe dichiarata favorevole ad un cessate il fuoco incondizionato, proponendosi anche come Paese garante.

Per tale ragione, risulta piuttosto facile immaginare il disappunto dei suoi vertici rispetto alla prospettiva delineatasi nel corso delle ultime settimane, per non parlare di quanto poco sia stato gradito il recente rischieramento di assetti militari statunitensi nella base aerea di Incirlik.

Dal punto di vista occidentale, il problema principale sembrerebbe risiedere nel fatto che il Parlamento turco non avrebbe ancora ratificato l’adesione della Svezia alla NATO.

Che tale tematica possa tornare ad essere utilizzata come arma di ricatto? Certamente si, anche se, in tal caso, i turchi dovrebbero, verosimilmente, prepararsi a subire alcune ritorsioni, tra cui, tanto per citarne una, il mancato via libera del Congresso statunitense alla vendita degli F-16V Block 70/72 ritenuti essenziali dall’aeronautica di Ankara al fine di tamponare la rapida obsolescenza della sua prima linea da combattimento.

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