SPECIALE. L’Italia del Risorgimento: dalle speranze del 1848 alla realtà dell’Unità d’Italia

Di Attilio Claudio Borreca*

Roma. L’anno che spalancò le porte al nostro risorgimento fù il 1848 che Giosuè Carducci ricorderà come “l’anno dei portenti, primavera della patria”.

Questo, infatti, è il segno inconfondibile del 1848 italiano ed europeo, in cui il profondo anelito al riscatto delle libertà civili, politiche e sociali, l’aspirazione vivissima alla conquista dell’indipendenza dalla soggezione straniera, sono motivi più che mai evidenti delle genti che, scrollandosi dal torpore di decrepite istituzioni, si sentirono pervase da un giovanile fremito di rinascita.

Una manifestazione del 1848

Le popolazioni si ribellarono alla tirannide di estranee dominazioni e all’assolutismo di governi reazionari, inaugurando una nuova era nella storia dei popoli.

Ed anche se i risultati pratici furono piuttosto scarsi, questi scompaiono in presenza delle idee agitate e dei grandi insegnamenti del Quarantotto.

In Italia poi, nonostante i disastri militari, le diatribe di parte, le manchevolezze di ogni genere, la dichiarata incapacità e immaturità della classe dirigente, il 1848 riassume tutti quegli elementi per cui si è nel vero, se si afferma che la grandezza di tale anno sta nel fatto di aver finalmente risvegliato la coscienza civile e politica dei ceti popolari.

L’avveduta attività politica di Cavour

Alla vigilia dei primi movimenti rivoluzionari, la questione che più assilla gli uomini maggiormente preparati è quella di trovare una formula di equilibrio tra il vecchio mondo conservatore e l’imprescindibile bisogno di libertà e di progresso.

Camillo Benso conte di Cavour

Contrasto politico e anche sociale, che trovò più tardi la sua soluzione nella condotta liberale: nell’ambito dello Stato e nel rispetto della libertà, questa antitesi fu composta dall’azione di Cavour.

L’idea liberale, alla prova dei fatti, si dimostrò come l’unica forza capace di riunire e rinvigorire le diverse aspirazioni unitarie.

Il Quarantotto italiano praticamente fu un insuccesso, per la carenza appunto di una forza atta a conciliare impulsi e tendenze del tempo.

Nessuno dei partiti e dei movimenti di allora fu in grado di assolvere tale compito mediatore. Non il partito mazziniano, quello che avrebbe dovuto guidare la rivoluzione, perché in crisi, specie dopo il fallimento dei suoi metodi insurrezionali.

La sua dottrina, dal substrato etico-religioso, assolse una funzione educativa di fondamentale importanza, in quanto convinse della necessità di credere nell’Italia, di lottare e di morire per lei, ma non fu però feconda di effetti nel campo pratico delle realizzazioni.

Anzi, dopo il 1849, a contatto con la dura realtà in cui si dovette dibattere la questione italiana, Mazzini talvolta si comportò in maniera da scalfire il suo prestigio.

In opposizione ai sostenitori del particolarismo municipale, egli auspicò il rinnovamento politico del Paese mediante forme unitarie: il suo principio nazionale, universalmente e religiosamente concepito, poggiò sulla libertà dell’individuo nella libertà dei popoli.

A differenza di Giuseppe Mazzini che vedeva nell’Unità la condizione essenziale per il progresso delle genti, Carlo Cattaneo la identificò invece nel Federalismo che, secondo lui,  costituiva il vero baluardo delle libertà dell’individuo.

Carlo Cattaneo

Ciò spiega il programma graduale di riforme politiche e civili immaginate dal Cattaneo sulla fine del 1847, riforme che avrebbero dovuto restituire al Lombardo-Veneto la libertà, pur rimanendo nell’ambito federativo austriaco.

Al concetto unitario mazziniano, egli intese sostituire quello federativo e la federazione austriaca avrebbe dovuto essere il primo passo verso quella europea.

La formula “Stati Uniti d’Europa” da lui lanciata nell’autunno del 1848, rafforzò maggiormente il suo progetto che non si ispirava certo a principi di nazionalità, sebbene a quelli di patria comune a tutti gli uomini liberi.

Cosicché si comprende chiaramente come il Cattaneo si sia battuto con energia, dopo il 23 marzo 1848, affinchè il popolo lombardo, al soccorso piemontese, preferisse un’alleanza con la Francia repubblicana e democratica.

La rivoluzione, nei propositi del Cattaneo, doveva rappresentare una trasformazione che non poteva essere attuata da forze monarchiche, che il Cattaneo riteneva conservatrici e illiberali. Solo le armi della Seconda Repubblica francese, depositaria degli immortali principi del 1789, avrebbero assicurato il trionfo della rivoluzione lombarda.

Quale sia stato poi l’atteggiamento della Francia è risaputo, e, in parte, giustifica le ragioni per cui Carlo Alberto cercò di evitarne ogni ingerenza nelle vicende di casa nostra.

Certamente, motivi dinastici si accompagnarono alle ragioni ideali nel determinare le deliberazioni sovrane, ma non si ritiene che per ciò si possa parlare di tradimento di Carlo Alberto nei riguardi della causa italiana.

Le esitazioni dei piemontesi

Toccò quindi al Piemonte ed ai Savoia di impersonare le aspirazioni dei patrioti e farsi assertori del moto nazionale nella lotta contro l’Austria.

Ma la tradizionale politica dinastica del Piemonte, verso la quale fatalmente, e, forse, nonostante il suo stesso volere, anche Carlo Alberto fu trascinato, cozzò contro i disegni dei democratici i quali, ambivano pure, mentre cercavano di affrancarsi dal servaggio asburgico, nuove forme di reggimento politico e nuove guarentigie sociali.

Carlo Alberto di Savoia

Il Piemonte, in cui primeggiavano ancora l’aristocrazia e la casta militare, non potè accogliere il programma rivoluzionario del partito democratico: libertà e indipendenza, si, ma sempre nel giro della politica piemontese manovrata da elementi non certo liberali e per i quali, a differenza di Carlo Alberto, la guerra contro l’Austria non significò una rivolta ideale, sebbene una ripresa della politica espansionistica del Piemonte.

Non una superiore veduta sorresse i dirigenti sardi, ma un immediato ed egoistico tornaconto che suscitò sospetti e rancori in coloro che avrebbero dovuto essere i naturali alleati del Piemonte, cioè nei Lombardo-Veneti.

Sospetti e rancori che furono ripagati con altrettante diffidenze, a scapito della causa di tutti. Gran parte dei Piemontesi, specie quelli vicino al re, non seppero, o non vollero, considerare il Lombardo-Veneto se non come terra di conquista da aggregare al Piemonte e non da riscattare dall’oppressione straniera.

E in questa errata valutazione sta, forse, uno degli errori più gravi che vietò agli uni e agli altri di comprendersi, di dare il bando ad assurde e dannose rivalità regionali e di avere sempre presente la santità del fine per il cui conseguimento avrebbero dovuto lottare affratellati.

Si sono così delineate le forze che, nell’empito rivoluzionario del ’48 e nel rapido incalzare di fatti e contrasti, agirono nella vana illusione che l’Italia potesse fare da sè e, purtroppo, mancarono allo scopo per una errata impostazione della questione la quale non poteva essere risolta al di fuori del gioco diplomatico delle grandi potenze.

La prima guerra d’Indipendenza aveva avuto termine con la netta, indiscutibile supremazia delle forze austriache.

Cinque giorni furono sufficienti all’Armata di Radetzky per debellare, nel marzo del 1849, le velleità piemontesi.

Nondimeno a Novara non tutto andò perduto. Anzi la fermezza di Vittorio Emanuele, in occasione del colloquio di Vignale, e la successiva sua azione, conclusasi con il manifesto di Moncalieri del 20 novembre, segnarono la vittoria del principio costituzionale monarchico sulle correnti retrive e rivoluzionarie del Paese.

Grazie all’accorta politica del giovane re, il Piemonte, mentre ovunque dilagava la reazione più accanita, divenne il punto luminoso cui guardavano i patrioti più anelanti a libertà e indipendenza. Il proclama di Moncalieri non solo impegnò i destini del Piemonte, ma decise anche il corso del Risorgimento.

Il costituzionalismo instaurato dal sovrano e dal suo primo ministro, Massimo D’Azeglio, si spogliò del primitivo carattere regionale, per assumerne uno più ampio, di maggiore respiro, in cui potessero convergere e riassumersi le aspirazioni nazionali.

Infatti gli esuli di ogni regione, affluiti a Torino ed accolti come fratelli, favorirono il disgregarsi della “vecchia mentalità municipale” e la fusione nel più “vasto crogiuolo italiano”.

Fu precipua fatica del conte di Cavour proseguire, sviluppare e completare l’opera del D’Azeglio ed è innegabile che, nei primi anni di governo, egli dedicò ogni cura alla rinascita interna del Paese.

Se egli riuscì, nel volgere di un non lungo periodo, a fare del Piemonte un “grand petit pays”, mai dimenticò che per favorire l’ingresso del Piemonte nel consesso europeo, cui era subordinata l’indipendenza italiana, occorreva preparare giorno per giorno gli elementi del piano da realizzarsi con audacia e tempestività nell’ora delle irrevocabili risoluzioni.

Si può dire che il rinnovamento del Paese sia stato compiuto in previsione di questa ora, tanto è vero che quando l’intervento alla guerra di Crimea – intervento che segna l’inizio della lungimirante politica nazionale di Cavour – si profilò all’orizzonte, il Piemonte poteva contare su un esercito, se non numeroso, ricostituito e disciplinato e su una situazione finanziaria di gran lunga migliore di quella del 1849.

 

Un’immagine della Guerra di Crimea

Il Piemonte, fortemente osteggiato dall’Austria e dagli altri Stati della Penisola, non era in condizioni di conseguire da solo l’unità, né tantomeno di scontrarsi vittoriosamente con il colosso asburgico, senza la collaborazione di una terza potenza.

Dal giorno della rottura delle relazioni diplomatiche con l’Austria, Cavour vigilò ansiosamente l’evoluzione dello scacchiere europeo, pronto a mettere sul tappeto il problema italiano appena avesse intravisto l’apertura propizia per isolare l’Austria.

Rifare la storia delle vicende che nel 1855 portarono vittoriose le truppe sarde al comando del Generale Lamarmora affiancanti la Turchia, contro la Russia, alla Cernaia, e, l’anno successivo, Cavour al tavolo della pace, altro non sarebbe che ripetere cose conosciute.

Qui si vuole solo ricordare che nella storica seduta dell’8 aprile 1856, a Parigi, si pronunciò la condanna morale dell’Austria e si dichiarò pure che il trovare un rimedio ai mali dell’Italia era interesse europeo che impegnava la Francia e l’Inghilterra.

Fu la prima grossa vittoria diplomatica del conte di Cavour: la macchina da lui preparata aveva preso l’avvio.

Cavour e la Francia

Lo statista piemontese, proprio in quelle settimane, raccoglieva i frutti di un triennio di durissime lotte all’interno e di esasperanti schermaglie con le cancellerie europee.

Tre anni di estenuanti fatiche, di spasmodica attesa che richiesero uno sforzo ad oltranza e sempre più crescente.

Cavour e Napoleone III

Dal maggio 1856, la mente e il cuore di quest’uomo furono assillati dalla costante preoccupazione di attuare una politica di guerra, badando, però, di non favorire lo scoppio anzitempo, prima cioè di essersi assicurato l’appoggio della Francia.

Politica temeraria e pericolosa, in quanto egli non solo dovette tener testa alle opposizioni delle correnti conservatrici e clericali subalpine, controllare e, se del caso, parare l’attività mazziniana la quale poi si trasformò quasi sempre nelle sue mani in un incentivo a risolvere l’anormale situazione della Penisola, ma sforzarsi anche di armonizzare lo spirito liberale del Piemonte con l’atteggiamento autoritario di Napoleone III.

Nel 1859 inizia il riscatto

Il 1859 segna il culmine della crisi propria del XIX secolo, il tramonto dell’assolutismo reazionario, ancorato all’antico ordinamento sociale, di fronte al prevalere del principio di nazionalità e delle forze liberali: è l’anno che vede dissolversi l’assetto imposto all’Europa dal trattato di Vienna, mantenuto efficiente da interesse dinastici, dalla vecchia aristocrazia, dagli ambienti militari e cattolici, rappresentati e sintetizzati dall’Impero Asburgico, contro il quale avevano svolto una lenta ma spietata corrosione le nuove ideologie che fermentavano in tutto il continente.

Gli avvenimenti italiani del 1859 non furono che un aspetto di questo più vasto rivolgimento europeo e vi si inserirono così intimamente da riceverne vigore e da conferirne al tempo stesso, tanto che sarebbe impossibile staccarli dal quadro internazionale.

Fu questa peculiarità che permise a Cavour di trovare all’estero chi fosse disposto ad appoggiare la causa italiana. La nostra unità voleva dire un nuovo Stato nel Mediterraneo che, sottratto all’Austria, oltre a provocarne l’indebolimento, poteva soggiacere ad un’altra sfera di preminenza.

Di qui il tenace sforzo di Vienna, inteso a difendere il proprio predominio europeo; di qui l’aiuto armato di Napoleone III, nella speranza di abbattere la rivale e di sostituirla nella Penisola, il che avrebbe consolidato il suo impero non solo all’esterno, ma anche, e soprattutto, all’interno. Chiare, quindi, appaiono le simpatie della reazionaria Russia in odio all’Austria, che in occasione della guerra di Crimea le aveva voltato le spalle e la condotta ambigua dell’Inghilterra più propensa al primato di Vienna che a quello di Parigi; chiaro infine appare il mutamento di Napoleone a Villafranca.

A parte il pericolo di un intervento prussiano e le crescenti ostilità all’interno, l’animo suo rimase sconcertato quando il moto della macchina italiana non si mostrò tanto docile e l’unità, che egli intendeva estendere alla sola parte settentrionale per riservare a un Bonaparte la Toscana e forse anche le Due Sicilie, minacciò di dilagare e di travolgere l’integrità dello Stato Pontificio.

Il suo abbandono, che non servì a impedire il precipitare degli eventi, sollevò il risentimento degli Italiani e non placò le apprensioni dei cattolici francesi, distruggendo così i benefici che Napoleone III avrebbe potuto conseguire dall’impresa portata a compimento con maggiore ardire e lasciando all’Inghilterra la possibilità di subentrare al suo posto come fautrice dell’indipendenza nazionale. Infatti Londra, in presenza dell’inevitabile formazione di uno Stato mediterraneo, non mancò di favorirlo.

Ecco allora il suo consenso alle annessioni della Toscana, dei Ducati di Parma, Piacenza e Modena e avversate dalla Francia, ecco l’atteggiamento passivo che nel 1860 permise a Garibaldi di realizzare l’impresa dei Mille.

Il 1859 è l’anno più rappresentativo, l’anno che dimostrò la maturità spirituale degli Italiani: basti pensare al larghissimo afflusso di volontari di ogni regione e di ogni classe sociale, all’entusiasmo con cui vennero accolti dalle popolazioni gli eserciti franco-sardi, al trionfale ingresso in Milano dell’8 giugno, ai plebisciti e alle annessioni.

La volontà unificatrice era così intensa da superare passioni di parte e tendenze monarchiche o repubblicane.

L’evoluzione verso una coscienza nazionale, lenta e faticosa agli inizi e quasi nulla nelle campagne, nell’ultimo decennio aveva ricevuto un forte impulso grazie a due fattori: il Piemonte e Mazzini.

Quest’ultimo, solo in apparenza, è lo sconfitto del 1859.

Il suo fervido apostolato fu di reale importanza nel diffondere nel popolo l’idea unitaria e sospingerlo nella storia come elemento vivo. Se i suoi tentativi insurrezionali erano falliti, l’ammaestramento alle nuove correnti ideologiche era rimasta e, quando il Piemonte rivelò una politica nazionale, i suoi seguaci diedero la propria adesione, trovando la forza di superare l’ideale repubblicano nell’ardente amore di patria, esso pure inculcato loro dal pensatore genovese.

Al Piemonte va dunque il merito di aver saputo polarizzare, coordinare e rendere fattive tutte le tendenze politiche disorientate e disperse dai non pochi tentativi miseramente naufragati.

Tramontato il mito de “l’Italia farà da sé”, l’avveduta e coraggiosa politica cavouriana, che era stata capace di aprire una breccia tra le crepe dell’edificio costruito dal Congresso di Vienna del 1815 e sfruttare a proprio vantaggio le rivalità internazionali, trovando un aiuto contro il potente impero degli Asburgo, sembrò la sola via verso il successo.

Accanto all’esercito regio combatterono anche i volontari guidati da Garibaldi che vestiva la divisa di generale sardo.

Sarà appunto questa indomita ed ardente volontà di vita nazionale a salvare l’Italia, appena sorta come Stato, dall’asservimento alle stesse potenze che l’avevano aiutata, in modo più o meno attivo, e a liberarsi dall’ingerenza austriaca.

I governi provvisori dell’Italia centrale pur abbandonati dai commissari regi, seppero, in momenti davvero critici, essere al di sopra di interessi contingenti e mantenere fede all’ideale unitario, manifestando la loro incoercibile volontà di vita nazionale.

Tanto esplicito patriottismo determinò pure il grandioso evento che contraddistingue il 1860: l’impresa dei Mille della quale, di seguito, si vuole solo sottolineare il significato nel processo formativo dell’Unità d’Italia.

Dalle delusioni dell’armistizio di Villafranca alle conquiste dei Mille

La spedizione di Sicilia riveste un carattere schiettamente popolare. Essa nacque, si concretizzò e si svolse al di fuori del governo sardo; inoltre la grande maggioranza, per non dire la totalità, di coloro che salparono da Quarto dissentiva dal programma monarchico-costituzionale del Piemonte, nutrendo sentimenti repubblicano-democratici.

Giuseppe Garibaldi

D’altronde, lo stesso Garibaldi professava la fede dei suoi prodi, solo che, consapevole delle esigenze del momento, egli a differenza di Mazzini, di Cattaneo e di molti altri, aveva compreso che il problema italiano si sarebbe risolto ad una sola condizione: quella di un’alleanza fra la rivoluzione ed il re di Sardegna.

Perciò in virtù del suo patriottismo, un patriottismo leale, semplice, coerente, lontano da ogni dialettica e quindi da ogni calcolo, non gli fu difficile piegarsi verso la corrente che riteneva allora la più indicata per il successo.

Una iniziativa, quella garibaldina, popolare, ma determinante in quanto spronò Cavour e i dirigenti sardi ad attuare una politica che, forse, essi, nella primavera-estate 1860, non avrebbero mai praticato.

La minaccia che i democratici potessero prendere la mano ai moderati obbligò la diplomazia sarda a dimenticare le raccomandazioni della Francia che, all’indomani delle annessioni, aveva appunto consigliato una battuta d’arresto. Cavour, in tale situazione, non nascose le possibili conseguenze sul piano internazionale se egli si fosse schierato a favore di Garibaldi: l’altra parte, considerò pure le reazioni interne, se il governo si fosse opposto con la forza alla partenza delle camicie rosse.

A parte il fatto che i seguaci di Garibaldi erano ormai una corrente viva, palpitante e non facilmente contenibile, egli sapeva pure molto bene di non poter contare sull’appoggio pieno e incondizionato del Sovrano, nonché sulla compattezza di un Parlamento disposto a sostenerlo all’unanimità.

Allora temporeggiò. Non aiutò la spedizione durante i preparativi, ma li lasciò partire. Una volta partita, minacciò arresti e altri drastici provvedimenti, ma, nel contempo, pensò di tenere a bada la diplomazia. Alle proteste delle corti di Parigi, Londra, Berlino, Pietroburgo, rispose che Torino non aveva potuto opporsi all’impresa poiché ciò avrebbe significato trascinare nell’insurrezione, che si sarebbe estesa in tutta la Penisola, anche il Piemonte.

Quando poi, passato Garibaldi nel continente, si profilò il pericolo che la rivoluzione non si arrestasse a Napoli, ma investisse anche lo stato romano, tempestivamente strappò a Napoleone III l’assenso di intraprendere la marcia, attraverso il territorio pontificio, verso il sud.

E’ quindi inequivocabile che il merito della campagna sarda nell’Umbria e nelle Marche si debba a Garibaldi perché, se questi non avesse deciso la leggendaria impresa e, più tardi, non avesse palesato il proposito di oltrepassare i confini napoletani, il Piemonte, sensibile alle sollecitazioni del terzo Napoleone, non si sarebbe mosso e non avrebbe pensato alla spedizione che, nei mesi di settembre e ottobre, impegnò le truppe regie dei generali Cialdini e Fanti.

Nel qual caso, il movimento italiano avrebbe davvero segnato una battuta d’arresto, quella battuta cui la Francia per più ragioni ambiva.

Ma, fortunatamente, Garibaldi generoso interprete delle ansie dei patrioti, osò l’impossibile e, confortato dall’atteggiamento inglese, riuscì a conquistare un regno di circa dieci milioni di abitanti.

Non fu certo una conquista facile, né si attuò in un clima di serena intesa tra le forze rivoluzionarie e i dirigenti sardi, anche quando questi, sbarcati i Mille a Marsala, non mancarono di sostenerla. Tutt’altro: anzi, il dissidio Cavour-Garibaldi, acuito dalla cessione di Nizza, raggiunse durante la campagna punte di altissima tensione e la crisi determinatasi, allorché Torino decise il congiungimento delle truppe regolari con le formazioni volontarie garibaldine, fu risolta unicamente dall’azione personale di Vittorio Emanuele II.

Vittorio Emanuele II

A Teano, il 26 ottobre 1860, Garibaldi salutò Vittorio Emanuele II, Re d’Italia, il che simbolicamente volle significare la consegna del regno appena conquistato e la cessione del comando.

L’incontro tra Vittorio Emanuele II e Garibaldi (26 ottobre 1860)

Pochi giorni dopo l’Eroe lasciava Napoli per ritornarsene a Caprera, avendo considerato le parole cordiali, ma ferme, rivoltegli dal re circa l’impossibilità di concentrare il lui poteri che costituzionalmente dovevano essere divisi.

La stima e la reciproca comprensione fra Vittorio Emanuele e Garibaldi resero, pertanto, fattibile l’accordo fra monarchia e popolo. Da questo connubio di forze apparentemente diverse, ma in realtà tutte tese alla stessa meta, scaturì l’unità solennemente affermata a Torino, il 18 febbraio 1861, durante l’inaugurazione dell’ottava legislatura del Parlamento.

Il Regno d’Italia era una splendente realtà.

*Generale di Divisione (Ris)

 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

 

 

Autore